E, in questo post, poi vengono argomentate altre due cose, sul cibo, che Vi poniamo in riflessione:
1- la questione degli SPRECHI ALIMENTARI e di una redistribuzione sociale del cibo a chi è in difficoltà;
2 – e l’altro tema è la QUALITA’ DEL CIBO: nella tendenza, nonostante tutto, a privilegiare nei fatti il FAST FOOD, cioè mangiare velocemente, prevale la scelta di un “cibo da strada” (nelle pause pranzo del lavoro; nelle stazioni mentre si aspetta il treno; nelle feste, sagre, incontri conviviali pubblici; nel fare turismo; in qualsiasi altro modo di utilizzo del tempo libero fuori casa, ma anche in casa nella quotidianità…). Anche il fast food può però essere di buona qualità (l’acquisto di prodotti tipici locali controllati e ben cucinati…) (vi proponiamo una statistica sull’argomento in un articolo di questo post che parla dei “cibi di strada”). Ma molto spesso il fast food propone “cibo-spazzatura”, di scarsa qualità, indigesto, poco nutriente.
E il sistema commerciale mondiale lancia messaggi dove anche le produzioni italiche di eccellenza vengono danneggiate gravemente dal cibo globale: prodotti della tradizione agro-alimentale italiana che vengono spacciati per tali nel mercato mondiale e provenienti da altri luoghi che nulla hanno a che vedere con il nome del prodotto con il quale si propongono (il famoso “PARMISAN” formaggio grana di produzione tedesca che coopta il nome del famosissimo “nostro” Parmigiano Reggiano. Fenomeno che viene chiamato ITALIAN SOUNDING, cioè c’è l’attribuzione di un’immagine italiana a prodotti che invece sono realizzati all’estero (per un giro d’affari che secondo la Coldiretti ammonta a oltre 60 miliardi di euro l’anno).
E’ anche vero che esiste un fenomeno contrario (e sempre ne parliamo in questo post), cioè alimenti etnici (di origine araba come il cous cous, o cinese come una certa qualità di riso, le patate olandesi…) che vengono prodotti in Italia (peraltro con qualità).
Invitandovi a leggere gli articoli qui raccolti, una riflessione basilare che qui riprendiamo dall’associazione Slowfood nell’articolo di Michela Marchi che troverete, è che la virtuosa produzione del cibo porta a una politica non solo individuale (di mangiar meglio, spendere bene quel che abbiamo…), ma a una politica “contro la fame” che nel mondo c’è, perché una doppia finalità si realizza: cioè che LA FAME ZERO SI RAGGIUNGE AUMENTANDO L’ACCESSO AL CIBO, NON AUMENTANDO LE RESE…e che è necessario garantire ad ogni comunità l’ACCESSO AL CIBO e una propria SOVRANITÀ ALIMENTARE (s.m.)
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COLTIVARE LE CITTÀ: AGRICOLTURA SOSTENIBILE IN AMBITO URBANO
da http://www.salonedelgusto.com/ , 23/9/2014
– Esperienze internazionali al Salone del Gusto e Terra Madre (tenutosi a Torino dal 23 al 27 ottobre 2014) –
Alcuni pionieri dell’agricoltura hanno escogitato nuovi e creativi modi per introdurre l’agricoltura anche in città, promuovendo progetti di coltivazioni verticali e orti sui tetti, per sfruttare nel modo più efficace il poco spazio disponibile. Che questo significhi coltivare prodotti sul balcone o in una parte del quartiere, gli abitanti delle città hanno finalmente trovato modi pratici di coltivare prodotti locali e a km0.
E parlando di città, facciamo riferimento ad alcune delle più grandi metropoli del mondo: si tratta, per esempio, degli orti sui tetti di New York, dei giardini verticali di Singapore, degli orti urbani di Parigi e San Francisco o degli orti comunitari di Boston.
Il Salone del Gusto e Terra Madre 2014 ha riunisce numerosi delegati di Terra Madre, coinvolti in modo interessante nei progetti di agricoltura urbana:
– Anthony Fassio (USA): fiduciario di Slow Food New York, gestisce diversi progetti e attività di agricoltura urbana.
– Kathryn Lynch Underwood (USA): co-fondatrice di Slow Food Detroit; collabora con gli agricoltori urbani e attivisti di Detroit per promuovere politiche alimentari e di agricoltura urbana.
– Faruk Ali Taptik e Muzaffer Suna Kafadar (TURCHIA): sono rappresentanti degli ORTICOLTORI DI INSTANBUL, comunità del Cibo di Terra Madre, un gruppo di attivisti che comprende architetti, urbanisti e studiosi e che si è radunato con lo scopo di occupare il sito storico degli ORTI ANTICHI DI FATIH, e salvarlo dalla trasformazione in parco pubblico, proponendo una nuova visione di progettazione che mira a proteggere e a utilizzare le terre fertili degli orti.
– Janneke Van der Heyden (OLANDA): rappresentante della comunità del cibo Terra Madre degli APICOLTORI SOSTENIBILI URBANI DI THE HAGUE, un’associazione di apicoltori e artisti impegnata in attività di sensibilizzazione e di educazione sul ruolo fondamentale svolto dalle api negli equilibri del pianeta.
– Julie Rouan (FRANCIA): Julie possiede alcuni ALVEARI A PARIGI ed è una rappresentante degli APICOLTORI URBANI DI VILLE MAINS JARDINS, un’associazione che ha sviluppato una serie di PRATICHE AGRICOLE SOSTENIBILI IN AMBITO URBANO. Tra le loro attività, lo sviluppo di UN APIARIO DIDATTICO presso l’ospedale Saint Louis, in cui ogni settimana alcuni volontari, accompagnati dai giardinieri che lavorano presso la struttura ospedaliera, curano cinque arnie raccogliendo il miele che viene poi distribuito tra l’associazione e gli ospiti dell’ospedale.
– Pravanjan Mohapatra (INDIA): Pravanjan è coinvolto nella distribuzione di prodotti biologici nelle città ed è particolarmente attivo nell’ambito dell’agricoltura urbana. Ha partecipato al Salone del Gusto e Terra Madre 2014 come delegato di Terra Madre per la comunità del cibo degli AGRICOLTORI BIOLOGICI DI ORISSA, e in particolare per la SABUJIA MITRA, un’ORGANIZZAZIONE CHE DIFFONDE L’AGRICOLTURA BIOLOGICA PER RAFFORZARE LA PRODUZIONE DI CIBO NELLE ZONE URBANE E FAR CONOSCERE AI BAMBINI LE FASI DI PRODUZIONE DEL CIBO. La principale attività dell’organizzazione è la CREAZIONE DI ORTI BIOLOGICI IN CONTESTI URBANI, dai CORTILI interni alle TERRAZZE.
Una delle iniziative internazionali che cerca di sensibilizzare gli abitanti della città ad un’alimentazione maggiormente consapevole è l’Eating City. Progetti come questo giocano un ruolo importante in questa nuova visione, aiutando i cittadini e coloro che sono chiamati a prendere decisioni per tutta la comunità ad avere maggiore consapevolezza e conoscenza riguardo all’agricoltura. (…..)
AGRICOLTURA URBANA
Fornire alle città una parte del fabbisogno alimentare utilizzando cibo locale, e al contempo consentire anche alle popolazioni urbane di prendere parte al processo produttivo del proprio cibo, è possibile se l’agricoltura urbana smette di essere considerata un passatempo economicamente insignificante e inizia ad essere incentivata come UN’ATTIVITÀ DI TIPO ECONOMICO, AMBIENTALE E SOCIALE. TETTI, DAVANZALI, BALCONI E GIARDINI, OLTRE A TERRENI MUNICIPALI DIVENTANO I LUOGHI DELLA NUOVA AGRICOLTURA.
Perché l’agricoltura urbana è importante?
Più di 3 miliardi e cinquecento milioni di persone, oltre la metà della popolazione mondiale vive nei centri urbani. Una tendenza in crescita, tanto che gli esperti prevedono che verso il 2030 il 70% della popolazione abiterà in città. Mentre le aree urbane sono affollate, molte zone rurali si spopolano: stiamo assistendo da tempo a una diminuzione del numero di contadini, in particolare tra i giovani. Non si possono ignorare questi cambiamenti demografici che influenzano l’offerta e la qualità del cibo nelle città e, soprattutto, definiscono il futuro dell’intero pianeta.
Un’altra implicazione chiave di questi cambiamenti demografici è la crescente distanza tra consumatori e produttori. La popolazione urbana consuma cibo senza avere consapevolezza della sua provenienza e di come questo abbia raggiunto la tavola. Dal momento che il rapporto con il cibo diventa sempre più labile, è spesso difficile valutare la qualità e la sostenibilità del cibo stesso.
La nascita di numerosi progetti, che mirano a riconnettere i cittadini con l’agricoltura e la produzione di cibo in tutto il mondo è quindi un fatto molto positivo. Sempre più persone cominciano a capire la portata del cambiamento sociale e le implicazioni ambientali dei cambiamenti demografici, specialmente in relazione all’approvvigionamento sostenibile di cibo in città. Consumatori responsabili stanno prendendo in mano la situazione, con iniziative individuali o collettive di agricoltura urbana. (v. http://www.slowfood.it/ )
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DIMMI CHE BIO SCEGLI E TI DIRÒ CHI SEI
16/12/2014, di Michela Marchi, da http://www.slowfood.it/
Immaginiamo che gran parte di voi abbia visto la puntata di Report sul bio (sì, dai, ci torniamo anche noi) e allo stesso modo immaginiamo che la maggior parte di coloro che hanno impiegato così la propria domenica sera non abbiano visto soddisfatte le proprie aspettative.
Per chi è più che interessato a quello che mangia, a come viene prodotto, a trovare un cibo buono per sé, per l’ambiente e per chi lo produce, non serve forse un servizio giornalistico che, se ha avuto il merito di insinuare il dubbio e sollecitare più controlli, non offre rifugio al consumatore finale.
La regola per noi è sempre la stessa: cerchiamo di conoscere chi ci offre il cibo che portiamo in tavola, siamo curiosi, non temiamo di tediare il nostro spacciatore di verdurine di fiducia con mille domande e oltre al naso e alla bocca usiamo la testa. Presuntuosi? Direi piuttosto prudenti e interessati.
E non mi venite a dire che non avete tempo perché conosco mamme con prole frignante al seguito che, nonostante il lavoro full time, riescono a organizzare incursioni al mercato, a scovare gruppi d’acquisto di ogni specie e a non impazzire.
LE RESE DEL BIO RAGGIUNGONO QUELLE DEL CONVENZIONALE Tornando a Report, forse un po’ più di approfondimento da una trasmissione di quel livello (che pur ha avuto il merito di svegliare il can che dorme soprattutto in Piemonte), sarebbe stato gradito. Certo, vale mettere in guardia dalle truffe (ma sul marketing del packaging dei cosmetici, nessuna novità, ci pare, no?), ma possibile che siano tutti imbroglioni? L’aspetto su cui ci piacerebbe invece soffermarci è un altro.
Possibile che si debba dimostrare a suon di certificati – con costi indecenti e processi burocratici svilenti – di essere completamente naturali? Questo onere non dovrebbe invece ricadere su chi produce inquinando, proponendo un prodotto arricchito da tossine e veleni?
Perché lo sforzo debbono farlo i virtuosi? Domanda retorica, va bene, ma sarebbe bello che i consumatori pretendessero altro, considerato che siamo noi a tenere su il Mercato. Già che stiamo parlando di bio, volevamo segnalare ancora altri due notiziole. O meglio, studi che sostengono come le coltivazioni biologiche potrebbero nutrire il mondo.
Quello pubblicato dalla Royal Society il 10 dicembre mostra come le rese dell’agricoltura bio possano raggiungere quelle dell’agricoltura convenzionale. Senza utilizzare quantità smisurate di pesticidi e fertilizzanti sintetici che soffocano gli ecosistemi marini con fioriture di alghe pestifere.
Questa ricerca, opera della prestigiosa Università di Berkeley in California, dimostra come la differenza di rese tra colture biologiche e convenzionali, se si rispetta la rotazione stagionale, può raggiungere la soglia dell’8%, percentuale decisamente inferiore rispetto al 25% stimato in precedenza. Se quanto affermano gli studiosi californiani fosse vero, significherebbe che le coltivazioni bio possono sfamare il pianeta. Prima degli applausi, però, vorrei invitarvi a una riflessione.
Le maggiori rese non aiuteranno a combattere fame e obesità (l’assurdo paradosso che viviamo con sfacciata indifferenza), soprattutto perché in realtà la maggior parte delle colture finiscono con alimentare allevamenti e auto, non le persone. Negli Stati Uniti infatti, più di tre quarti delle calorie prodotte dalle aziende agricole è destinato all’allevamento e ai combustibili biologici.
Insomma il punto è sempre lo stesso: la fame zero si raggiunge aumentando l’accesso al cibo, non aumentando le rese… Dati alla mano, allora, quanto ci serve l’agricoltura industriale a sfamarci? Il problema non è quindi coltivare di più, ma garantire alle comunità accesso al cibo e sovranità alimentare. La strada, non ci stanchiamo di ribadirlo, è quella dell’agricoltura familiare.
PUNTIAMO SULL’AGRICOLTURA FAMILIARE E ancora una volta non siamo i soli a sostenerlo: un recente sondaggio a cura di Grain che, grazie a una corposa base dati raccolti in tutto il mondo, mette in luce come sono i produttori di piccola scala a sfamare il mondo e lo fanno utilizzando solo il 24% della superficie coltivabile, o il 17% se si escludono Cina e India.
E come fanno questi contadini a sfamarci tutti coltivando una superficie così irrisoria? Il paradosso è che le piccole aziende agricole spesso sono molto più produttive di quelle grandi. The Ecologist ci informa che se i rendimenti delle piccole aziende keniote fossero messe nelle stesse condizioni delle produzioni su larga scala, la produzione raddoppierebbe. In America Centrale triplicherebbe. Se le rendita delle mega aziende in Russia raggiungesse i risultati di quelle piccole, la produzione aumenterebbe di sei punti.
Insomma, crediamoci. Con un po’ più di impegno e interesse possiamo davvero migliorare il mondo con la forchetta. Il bio costa troppo e non ci fidiamo per via dei “biofurbetti”? Chiediamo, informiamoci e valutiamo le nostre priorità d’acquisto. (Michela Marchi)
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