Salon pubblica un’intervista a Joseph Stiglitz per AlterNet. Il Nobel per l’economia parla di disuguaglianze di ricchezza e reddito, del recente libro di Piketty, e di come le cose potrebbero ancora peggiorare. È fondamentale sfidare l’infondata credenza neoclassica che la ricchezza sia il proporzionato compenso al contributo che si dà all’economia: di fatto la ricchezza si accumula, perlopiù, per rendita o esercizio del potere monopolista.
intervista a Joseph Stiglitz, di Lynn Stuart Parramore, per Alternet – 3 gennaio 2015
Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha scritto sulle divisioni della società americana dal punto di vista economico fin dagli anni ’60. Nel suo recente libro, Il Prezzo della Disuguaglianza, sostiene che queste divisioni stanno frenando il paese; un argomento che ha esplorato anche nelle sue recenti ricerche finanziate dall’Institute for New Economic Thinking e da altri. Il 4 dicembre, Stiglitz ha presieduto l’ottavo convegno INET Seminar Series, presso la Columbia University, nel quale ha presentato un paper intitolato “Nuove Prospettive Teoriche sulla Distribuzione del Reddito e della Ricchezza tra le Persone“. Nella seguente intervista, parla dei temi di questo studio, del lavoro di Thomas Piketty, e della necessità per la disciplina economica — e per il paese — di trovare una soluzione al crescente divario tra ricchi e poveri.
Lynn Parramore: Lei ha detto che le disuguaglianze economiche sono state il tema del suo dottorato. Come le è venuto l’interesse di studiare il modo in cui reddito e ricchezza sono distribuiti all’interno della società?
Joseph Stiglitz: Per prima cosa, quando cresci a Gary, in Indiana, come nel mio caso, ti trovi in un contesto che è il prototipo di un’America divisa. C’erano moltissime persone in condizioni di povertà. Allora non avevamo l’uno percento, ma avevamo il cinque percento. Non avevo idea di cosa fosse la disuaguaglianza reale, ma c’erano moltissime persone in fondo alla scala della distribuzione. In secondo luogo, devo ripensare agli anni in cui andavo al college e c’era il Movimento per i Diritti Civili. Come ricorderà, la marcia di Martin Luther King era una marcia per la fine delle discriminazioni e per l’emancipazione economica. Penso che molti di noi si fossero resi conto allora che non saremmo riusciti a risolvere del tutto il problema dell’America divisa — della discriminazione razziale — se non ci fossimo occupati delle differenze economiche.
LP: Cosa c’è di nuovo nel suo ultimo lavoro sulla distribuzione del reddito e della ricchezza tra le persone?
JS: Ci sono diverse cose. C’è un certo dibattito su questo argomento, ma penso che molti di coloro che hanno letto il libro di Thomas Piketty (Il Capitale nel 21° secolo) abbiano l’impressione che l’accumulazione della ricchezza — dei risparmi — sia la causa della crescita delle disuguaglianze e che ci sia, quindi, in qualche modo, un collegamento tra la crescita economica — l’accumulazione del capitale — da una parte, e disuguaglianza e ricchezza dall’altra. Il mio paper inizia con l’osservazione che in realtà non è possibile spiegare l’evoluzione del rapporto ricchezza/reddito sulla base di questa analisi. Se si guarda più da vicino a quello che è successo, ci si accorge che gran parte della crescita della ricchezza è dovuta ad una crescita del valore della terra, e non della quantità dei beni capitali.
LP: Quando Lei dice “terra”, non sta parlando dei terreni nel senso di Jane Austen, cioè di terreni agricoli di proprietà dei latifondisti, vero?
JS: No, non sto parlando di terreni agricoli, ma del valore dei terreni urbani. E comprenderei anche, in senso ampio, la rendita legata alle risorse naturali (“rendita” è un termine economico che indica le entrate che non derivano dal lavoro). Il valore dei beni esistenti. Come nota a margine, una parte di ciò che è successo, oltre all’aumento del rapporto ricchezza/reddito, è la capitalizzazione dell’incremento di altri tipi di rendita, come le rendite da monopolio. Se aumentano le rendite da monopolio, se aumenta il potere di contrattazione delle aziende nei confronti dei lavoratori, così come quando hai la possibilità riservata a pochi, come le banche, di ottenere garanzie pubbliche — allora il loro valore aumenta e viene capitalizzato. Questo aumenta la ricchezza ma non aumenta il capitale. È proprio questa distinzione tra ricchezza e capitale che diventa critica. Questa è la prima idea.
Questo è importante perché allora si inizia a fare una ricerca sulla spiegazione del perché il valore della terra o di altre fonti di rendita è aumentato. Gran parte del mio libro, Il Prezzo della Disuguaglianza, tratta del motivo per cui è aumentata la ricerca delle rendite. Ma il resto riguarda aspetti diversi dal valore dei terreni o dei beni. Ritengo che questo sia strettamente collegato al sistema creditizio.
LP: Come spiega questo collegamento tra credito e disuguaglianza?
JS: Se c’è un flusso di credito crescente, come quello che abbiamo visto negli ultimi anni — questo flusso di credito non finisce in una maggiore accumulazione di ricchezza come la intendiamo normalmente in economia, cioè come beni capitali. Quello che succede invece è un aumento delle bolle, di un tipo o di un altro.
Ciò che è successo ripetutamente negli ultimi anni è che abbiamo visto le autorità monetarie permettere — attraverso la deregolamentazione e degli standard più permissivi — alle banche di prestare di più. Ma questi prestiti non sono andati a creare nuove attività imprenditoriali, e nemmeno in beni d’investimento. Sono andati in modo sproporzionato ad aumentare il valore dei terreni e di altro capitale fisso (edifici, beni immobiliari, ecc.). E questo è ciò che ha preoccupato tutti. Perciò in questo senso, nella discussione che c’è stata sul quantitative easing — nessuno lo ha collegato con la disuguaglianza o con la crescita macroeconomica generale. Il collegamento con la disuguaglianza è duplice: uno è che ad un livello molto, molto macroeconomico, se una maggiore quota dei risparmi porta ad un incremento nel valore della terra anziché nella quantità dei beni capitali, allora la produttività dei lavoratori non potrà crescere. I salari non potranno aumentare. Quindi in parte ciò che sta succedendo è che non abbiamo fatto il tipo di investimenti che avremmo dovuto fare.
Ma l’altro aspetto che è forse più importante, è che quando si deregolamenta, si permette di prestare di più a parità di garanzie. Quindi quelli che hanno i beni da usare come garanzie vedono aumentare il valore di tali beni, come la terra. E quindi coloro che detengono ricchezza diventano ancora più ricchi. I lavoratori, che non hanno ricchezze, non avranno benefici da tale espansione. Quindi il collegamento è che il credito ha un impatto sui prezzi dei terreni e sui prezzi dei capitali fissi, e questi vanno in modo sproporzionato ai ricchi. E questa è una parte fondamentale dell’aumento della ricchezza. Questa è una parte del mio paper.
L’altra parte è un tentativo di definire una teoria generale della trasmissione, per così dire, della ricchezza e di altri benefici da una generazione all’altra, e di tentare di identificare, a livello generale, le forze che portano verso una distribuzione più diseguale e quelle che portano invece verso una distribuzione più equa. Si potrebbe quasi dire che è una tassonomia — è un modo per ragionare e inquadrare i fatti. E quando inizi a pensarci sopra, ti accorgi che ci sono molte altre forze all’opera proprio adesso per aumentare la disuguaglianza. Ed è anche un modo di inquadrare le indicazioni di politica economica. Quindi, se abbiamo maggiore emarginazione economica in un mondo in cui ci sono scuole locali, scuole finanziate localmente, allora avremo più disuguaglianza nell’istruzione, e quindi i figli di genitori ricchi finiranno per ottenere maggiore capitale umano.
Questo modello in effetti fornisce una teoria generale molto robusta per spiegare la disuguaglianza. Ci sono molti altri sviluppi nell’articolo, ma l’intuzione fondamentale è che quando ragioni sulle politiche che dovranno affrontare la disuguaglianza nella ricchezza, devi andare molto cauto su quella che gli economisti definiscono “l’incidenza delle tasse”. Se gran parte dei risparmi viene fatta dai capitalisti, e tu tassi le rendite da capitale, loro avranno meno da investire. Ciò significa che, nel lungo termine, il tasso d’interesse salirà. Quindi ciò andrebbe un po’ contro l’intento di ridurre il reddito dei capitalisti.
LP: Come si fa a prevenire gli effetti negativi della tassazione sui capitalisti?
JS: Un modo per impedire che si verifichino sarebbe quello di fare in modo che sia il governo stesso ad investire — cioè che raccolga una parte del denaro proveniente dal gettito fiscale e lo investa esso stesso in capitale. Ciò eviterebbe l’aumento delle rendite. Non è che sia tutto collaudato, ma quello che sto cercando di dire è che alcune affermazioni fatte da Piketty sul fatto che si dovrebbe semplicemente tassare il capitale possono essere state eccessivamente semplicistiche.
LP: Nel suo articolo lei sostiene che il potere dell’uno percento di sfruttare tutti gli altri sia in crescita. Perché sta avvenendo? C’è un limite a questo sfruttamento?
JS: In un modo molto cauto e accademico di dire le cose, affermerei che una delle spiegazioni di ciò che sta accadendo è un aumento dello sfruttamento. Lei vede che il rapporto tra salari e produttività sta diminuendo, e ciò è sicuramente coerente con l’aumento dello sfruttamento. E i vede anche che il rapporto tra la paga dell’amministratore delegato rispetto a quella del lavoratore sta aumentando. Quindi direi che una parte della spiegazione ha a che vedere con la diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori, dei sindacati, con un’asimmetria nelle liberalizzazioni dello Stato, con il capitale che si può muovere liberamente mentre il lavoro non lo può fare, con le leggi che garantiscono scarsi controlli sugli abusi del potere aziendale esercitato dagli amministratori delegati, e con un aumento del potere del monopolio a causa delle esternalità di rete.
Quindi c’è di sicuro una serie di fattori che ci portano ad affermare che in generale c’è un aumento del potere del mercato. Ci sono alcune cose dove c’è più competizione — ad esempio, grazie ad internet c’è più competizione sul livello dei prezzi, ma in generale, quando si guarda al rapporto tra salari e produttività, c’è un netto aumento del potere del mercato.
Probabilmente esistono dei limiti — a volte il grado di sfruttamento è espresso come il rapporto tra salari e produttività marginale del lavoro, e quando questo rapporto scende verso lo zero — quello è un limite! Quello che voglio dire è che le cose possono ancora peggiorare di molto se non facciamo qualcosa. Questa è una cosa fondamentale. Ciò che conta è capire se ci troviamo o meno sul sentiero verso un continuo peggioramento.
LP: Lei suggerisce che il potere monopolistico sia in crescita. Questo che ruolo gioca nella disuguaglianza di reddito e ricchezza?
JS: C’è una grande concentrazione di coloro che detengono un monopolio. Se si guarda alla lista di Forbes, i due al top sono entrambi monopolisti. Bill Gates ha fatto i soldi attraverso il potere monopolistico, e Carlos Slim si è arricchito col potere monopolistico in Telemex. Non sto dicendo che non fossero efficienti o che non facessero bene le cose. Possono essere stati innovativi o meno — ci sono state molte critiche su Microsoft, ma non è di questo che intendo parlare. Ciò che possiamo dire è che molti dei guadagni che hanno fatto sono dovuti all’esercizio del potere di monopolio, e non credo che alcuno ne possa dubitare. Quindi quando guardi chi sta in cima, c’è un potere monopolistico.
LP: Molti economisti neoclassici sostengono che coloro che contribuiscono all’economia ne ottengono una ricompensa proporzionata. Questo modello si sta rompendo?
JS: Sì. Penso che l’offensiva lanciata dal mio libro, Il Prezzo della Disuguaglianza, e da molti altri lavori, sia stata quella di mettere in discussione la teoria del margine di produttività, che è la teoria che è stata prevalente negli ultimi 200 anni. Molta gente l’ha messa in discussione, ma il mio lavoro rinnova questo tema. E penso che una parte di ciò che Piketty e i suoi colleghi hanno fatto di più interessante sia stato di fornire la base empirica per permetterlo. Non solo l’esempio che ti ho fatto che, se guardi chi sta al vertice, sono di fatto i monopolisti a vincolare la produzione.
È anche vero che le persone che forniscono i contributi più produttivi, quelli che producono laser o transistor, o l’inventore del computer, o i ricercatori del DNA — nessuno di questi fa parte delle persone più ricche del paese. Quindi se guardiamo a quelli che hanno contribuito di più, e a quelli che stanno al top della ricchezza, non coincidono. Questa è la seconda parte.
Uno studio molto interessante fatto da Piketty e dai suoi colleghi riguarda l’effetto dell’incremento delle tasse sull’un percento al top. Se tu pensi che queste siano le persone che hanno lavorato e contribuito di più, allora potresti dire OK, ciò danneggerebbe decisamente l’economia. Ma se invece dici che si tratta di percettori di rendite, allora stai semplicemente “catturando” per il governo una parte di quelle rendite.
LP: Come facciamo a impedire che le disuguaglianze peggiorino?
JS: Dividerei la risposta in due parti: cosa possiamo fare per ridurre le disuguaglianze nei redditi prima che siano tassati e trasferiti, e cosa possiamo fare per ridurle nel momento in cui sono tassati e trasferiti. La prima parte ha a che fare con l’aumento dei salari minimi, il rafforzamento dei sindacati, una migliore istruzione, e un rafforzamento delle leggi sull’antitrust e sulla regolamentazione delle aziende. Questo è il genere di cose che possono migliorare la situazione sui redditi prima che siano tassati e trasferiti. La seconda parte riguarda le tasse sulle plusvalenze, il trattamento preferenziale che favorisce le persone al vertice, e una migliore politica redistributiva. Questo aiuterebbe a rendere più equi i redditi quando sono tassati e trasferiti.
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